Nonostante Expo, la realtà | documento di fine Esposizione
Riavvolgiamo per un attimo il nastro e fissiamolo a una immagine e una data: Palais de
Congrès, Parigi, 31 marzo 2008. Sul palco le facce sorridenti di Romano Prodi, Letizia
Moratti, Massimo D’Alema e Roberto Formigoni. Ecco la rappresentazione del sistema
Paese che riporta a Milano, cento anni dopo, l’Esposizione Universale. Centro destra e
centro sinistra insieme, le larghe intese non sono un esercizio retorico o intellettuale, ma il
modo di governare comprando il consenso e anestetizzando il conflitto.
Negli anni le figure politiche ed economiche sono in parte cambiate, i quattro di Parigi
sono stati spazzati via dai competitor interni ai loro partiti. I mondi che rappresentavano
sono invece rimasti al loro posto. Expo 2015 è stata per loro “l’occasione che capita una
volta ogni cento anni”. Per fare cosa? Business, certo. Ma soprattutto sperimentare il
governo di domani.
Portiamo il nastro un po’ più avanti, fermo immagine numero 2: Roma, 6 maggio 2013,
l’amministratore delegato di Expo Spa Giuseppe Sala viene nominato dal governo Letta
Commissario Unico di Expo. L’emergenza creata ad arte con i ritardi degli anni precedenti
apre la strada alla gestione commissariale. L’eccezione diventa regola, la deroga diventa
norma.
In nome di Expo si sdogana di tutto, dal lavoro gratuito al cemento autostradale, dalle
deroghe al codice degli appalti alla convivenza con la corruzione, dall’uso dei poteri
commissariali alla legalizzazione delle marchette stampa. Fino alla più grande schedatura
di massa di lavoratori mai vista, centinaia di loro tenuti fuori da Expo sulla base di
controlli di polizia chiesti dal Governo. A Expo si può fare, perché a Expo va sempre tutto
bene: comunque vada, sarà un successo. E non deve essere disturbato.
Scorrendo il nastro ancora più avanti vedrete la grande menzogna del tema, la nutrizione
del pianeta, schiantarsi verso un suolo arido di multinazionali e finte Carte di buoni
propositi. La cosiddetta eredità morale di Expo. Una grande bugia che il sistema Expo è
riuscito far passare come verità. E qualcuno pare ci abbia pure creduto.
Ma il fermo immagine che resterà nella storia, l’unico motivo per cui Expo popolarmente
sarà ricordata, è un altro: le code di visitatori. Numeri in linea con le ultime Expo europee,
ma quelle foto riprese e rimandate giorno dopo giorno a reti unificate, hanno creato e
decretato il successo di Expo. Quelle immagini, l’evento glamour, hanno trasformato il
sistema Paese del Palais de Congrès a.d. 2008, in sistema Expo guidato da Matteo Renzi.
E’ il sistema che con l’uso dei poteri emergenziali porta dritto all’assalto al territorio del
decreto Sblocca Italia, che commissaria i sindaci e attacca i poveri. Comprando il consenso
come Expo ha insegnato: corruzione ideologica, sociale e politica. In questo sistema la
politica ringrazia i magistrati per aver dimostrato “sensibilità istituzionale” non indagando
durante il grande evento e i magistrati si intruppano giocando un ruolo politico.
Comprare il consenso, cooptare le possibili voci critiche con i classici 5 minuti di celebrità.
A Milano ha funzionato.
Dicevamo tempo fa: oggi a Expo, domani nel resto del paese. Questo contributo vuole
essere un punto d’appoggio per le lotte al sistema di Expo che sta allungando i suoi
tentacoli dentro e soprattutto fuori Milano.
Nonostante Expo, la realtà
1- Per cominciare
A sei mesi dal Primo maggio e in occasione della chiusura di Expo, riprendiamo parola.
Chiuso il mega-evento resta l’ipoteca posta sul futuro di Milano e oltre. Restano le
conseguenze tossiche di un modello che si è già riciclato, uomini e metodi,
nell’organizzazione del prossimo Giubileo come nei gangli del decreto SbloccaItalia, fino
alla probabile candidatura a sindaco del Commissario unico G. Sala (che intanto prende
posto in Cassa depositi e prestiti). Il “sistema Expo” è il sistema di potere contro cui
dovremo batterci anche in futuro. Da Milano la piovra sta già allungando i tentacoli e i sei
mesi dell’Esposizione Universale sono serviti a sperimentare come spingere l’opzione
neoliberista un po’ più in là. Autocelebrandosi come vincente, il Sistema Expo si candida a
modello delle relazioni politiche, lavorative, istituzionali e di g overnance con cui ci
confronteremo e scontreremo nei prossimi mesi e anni.
In questi sei mesi abbiamo assistito alla crescente retorica trionfalistica che circondava
Expo, al punto da far diventare le code l’indicatore di un successo ancora tutto da
dimostrare. Retorica e trionfalismi utili a celare il vuoto dell’offerta concreta del sito
espositivo e ancor di più la vacuità rispetto a tema e obiettivi (se non sfamare gli stomaci
dei visitatori) ma anche a far dimenticare quanto accaduto negli anni precedenti: le
inchieste e gli scandali, i costi pubblici e le nocività, lo sfruttamento di manodopera e il
consumo di suolo. E il velo della grancassa mediatica è servito anche a celare al territorio
metro-lombardo, ai milanesi, la portata della grande trasformazione che con l’imposizione
del modello Expo si è compiuta e realizzata.
In questi anni abbiamo smontato la sua narrazione usando alcune parole chiave per
decostruire immaginari e criticare metodi e processi: debito, cemento, precarietà, nocività,
spartizione, poteri speciali, corruzione sociale e culturale, narrazione tossica. Attorno a
questi termini di analisi abbiamo costruito connessioni con territori e lotte, fino ai 50.000
della NoExpo MayDay 2015. Da qui ripartiamo oggi per chiarire come mai questi sei mesi
di esposizione, e il loro lascito, non hanno fatto che confermare la nostra convinzione che
“Expo fa male” e che nell’immediato futuro si giocherà una nuova partita che richiederà la
nostra attenzione. Ma prima di entrare del merito non possiamo evitare di ripartire dal
Primo maggio, dal clima da “nemico pubblico” che abbiamo respirato nei mesi precedenti,
in un crescendo di criminalizzazione e sospensione di democrazia. E poi ancora dopo il
Primo maggio quando siamo stati dipinti “il” problema di questa città, al punto da minare
la nostra agibilità politica.
2- Expo e tutto il resto
Se guardiamo dalla prospettiva più vicina a quella più lontana, politicamente Expo ha
rappresentato soprattutto tre cose: la ridefinizione dei rapporti sociali, urbani e proprietari
dentro la città di Milano e il territorio circostante; la sperimentazione di un modello
emergenziale di g overnance che si fa sistema a livello nazionale (non solo Job’s Act e
SbloccaItalia, ma anche Decreto antiterrorismo…importante precedente per le prossime
sospensioni della democrazia, come il Giubileo e le possibili Olimpiadi romane); la
liberalizzazione delle terre e dell’agricoltura a livello europeo, ponendo le basi attuative dei
nuovi trattati commerciali internazionali, in primis l’euroamericano TTIP. Ovvio: Expo da
solo non ha fatto questo, non siamo paranoici, ma ha rappresentato un tassello ed un
passaggio importante di meccanismi e processi più generali che sono poi quelli del
capitalismo della crisi dettato da FMI, BCE, mercati finanziari, accordi di libero scambio,
COP, interessi delle potenze economiche e militari e delle grosse Corporations. Non sarà
certo la Carta di Milano a scalfire questi interessi, anzi la reticenza e sostanziale nullità
sono funzionali proprio allo status quo.
3- Come cambia Milano
Nel nostro, a Milano, ha definito una città di fatto commissariata, pacificata (ma non
normalizzata: e viene da chiedersi cosa succederà all’esplosione di questo paradosso),
cooptata nella sua anima più critica e attiva, squilibrata dal punto di vista del lavoro e del
reddito. Per sei mesi abbiamo assistito a un falso senso di cosa siano socialità e spazio
pubblico, in una città di pieni e di vuoti. E parliamo dei quartieri e dell’urbanistica, di chi è
di fatto destinato ad un abitare di merda, ad un lavoro stagionale e sottopagato, senza
possibilità di mobilità e di vivere in un ambiente che ne tuteli la salute. Una città la cui
identità (dopo l’industria, l’eroina e l’arrivismo, la moda e il design) non è più data da
processi che concretamente avvengono al suo interno, ma da eventi temporanei e dalla
promessa che qualcosa di bello accadrà (in perfetta coerenza con i nostri tempi così
inutilmente renziani). Una città che non tiene conto che si sta dando e sta aspettando, sta
aprendo punti j unkfood pop a fianco di b outique del cibo griffato, e offre spettacoli
pirotecnici in Darsena, passeggia davanti ad architetture futuristiche ma ignora il
saccheggio di risorse pubbliche e di tempo, relazioni, solidarietà che potrebbe essere
utilizzato invece per riprendersi ciò che ci è stato espropriato con il nostro consenso. M a
resta il fatto che Milano è una città indisponibile: all’ascolto, alla critica. Al conflitto. Dove
la crisi non ha prodotto rabbia sociale e istinto di rivolta ma paura, bisogno di tranquillità e
una serpeggiante delusione. Come nella migliore tradizione borghese, i milanesi si
percepiscono assediati dai profughi in Stazione Centrale e dalla disoccupazione (il
territorio metro-lombardo è uno di quelli in cui si sono aperte il maggior numero di
vertenze lavorative nell’ultimo anno), dal fallimento economico e dallo spettro del declino.
Il sindaco Pisapia, il Pd e il nuovo centro (senza sinistra) al governo dal 2011, sono
perfettamente coerenti con questa tradizione: la giunta gentile non ha tradotto
politicamente le istanze di cambiamento e trasformazione e le sofferenze sociali in
embrione, ma piuttosto le ha cooptate. Oggi, dopo il pisapismo, Milano è molto più
pacificata, la zona grigia potenzialmente disponibile all’ascolto e allo scontro è stata
divorata dal conformismo culturale e totalitario, che proprio nella retorica e xpottimista ha
la sua massima espressione. L’asse politico della società non è andato pericolosamente a
destra né siamo riusciti a spostarlo a sinistra: viviamo nell’egemonia del partito moderato
che l’ha sempre fatta da padrone nella storia d’Italia e, più in piccolo, nella capitale
economica del paese.
Il Primo maggio, nonostante tutto, ha voluto rappresentare una sfida proprio a quella
cappa grigia e conformista, impaurita e narcotizzata, che si sta divorando ogni possibilità
di conflitto a Milano e in questo paese. Il Primo maggio volevamo rompere questo progetto
di moderatismo e rassegnazione, con il suo portato di necessaria disuguaglianza sociale e
vite interrotte.
4- Sala dice <<21 per Expo>>
Ad oggi è ancora misterioso e poco chiaro cosa abbiano visto i 21 milioni di visitatori (o
meglio di biglietti venduti dato che i dati sugli accessi al sito diffusi da expo spa parlano di
una ventina di milioni di visitatori abbondanti da cui è necessario sottrarre dai 10 ai 14
mila accrediti al giorno). E’ ancora più misterioso capire cosa si siano “portati a casa”
rispetto al tema, N utrire il Pianeta – Energia per la Vita . Partito a rilento, con il 30% dei
lavori previsti incompiuti (elemento che, nel silenzio generale, è rimasto fino all’ultimo
giorno), Expo ha necessitato di parecchi aiuti per attrarre visitatori: ingressi omaggio,
biglietti serali a 5€, sconti e offerte per molte categorie. Se il risultato può servire a
scatenare la propaganda, la domanda che sorge spontanea è chi pagherà per i minori
introiti? Chi coprirà il disavanzo tra il costo medio stimato per i biglietti nel bilancio
preventivo, ossia 22,5€, e quello effettivamente pagato, che è decisamente più basso? La
risposta è semplice: debito pubblico, ripianato dallo Stato tramite Cassa Depositi e Prestiti.
L’ingresso di Sala nel consiglio d’amministrazione sembra essere la dichiarata continuità
nella gestione finanziaria del dopo evento. Questa voragine avrà sicuramente ripercussioni
sul bilancio del comune di Milano, sull’economia dell’intera regione ed in generale sul
“sistema paese”. Probabilmente non conosceremo mai il vero incasso della vendita dei
biglietti, perché Expo S.p.A. è una società fuori dal normale sotto molti aspetti, non è
quotata, non deve redigere un bilancio pubblico, sfugge ai controlli del mercato (Consob e
Bancaditalia in primis). Sarebbe interessante se qualcuno chiedesse i numeri veri, secondo
la logica del buon senso che, siccome Expo è stata fatta con soldi pubblici, non sarebbe
male che la collettività fosse informata con trasparenza del bilancio economico. Ma le cifre
ufficiali, fino a oggi oscurate dall’ottimismo di regime, da novembre in poi saranno
soppiantate da due campagne: quella elettorale per il sindaco di Milano e quella
economico-finanziaria per i futuri investimenti su Milano, che non comprendono solo il
post-Expo ma riguardano scali ferroviari, caserme, aree del Parco Sud dopo la
santificazione fatta dall’Expo col tema “food”, nuove metropolitane e altre ipotesi
speculative. La famosa “terza rivoluzione urbanistica” milanese ha avuto il campo ripulito
da dubbi e criticità, oltre ad essere stata preparata dalla grande spartizione degli anni
precedenti.
5- Disneyland
Queste riflessioni sono scomparse di fronte all’expottimismo ed all’uniformismo senza
precedenti che si è abbattuto in particolare sull’opinione pubblica meneghina, scatenato
come un mantra con modalità orwelliane, perché Expo doveva e deve essere un successo.
Anche a costo della realtà. Fa niente se poi nessuno risponde alle legittime domande, visto
che al contempo franavano e scomparivano nel dimenticatoio i loro fallimenti, sia gli
eventi a b rand Expo sparsi ovunque in Italia, piuttosto che i costosi spettacoli del C irque
du Soleil (unico vero investimento culturale, finito peraltro male, effettuato dalla macchina
organizzativa), che si è rivelato essere esattamente quello che avevano sempre sostenuto:
la materializzazione di una D isneyland in versione padana, con una enorme capacità di
imporre il pensiero unico dell’Expo-felicità. In questo ambito, occorre riconoscerlo, ha
dato una grossa mano il contribuito di (pare) circa 50 milioni elargito dalla società alle
maggiori testate d’informazione, e giustificato alla voce “comunicazione istituzionale”. La
macchina del consenso è stata alimentata dalla Darsena, dai rinnovamenti architettonici
ma anche da un sistema informativo bipartisan e totalmente appiattito sulle necessità
dello…spettacolo.
6- Una città ridotta a vetrina
Gli effetti sul turismo sono contraddittori: in città il flusso dei turisti è sicuramente
aumentato e le statistiche informali dicono che i visitatori sono incrementati rispetto al
2014. I dati più ufficiali, ovvero l’imposta di soggiorno, parlano di una riduzione delle
entrate di 20 mln di euro rispetto al bilancio preventivo: 40 mln di euro incassati, 5 mln di
euro in più rispetto al 2014 (il 12,5 % in più su base annua, dato ancora previsionale e non
definitivo). Però Milano non è una città turistica, ed incrementare un numero piccolo non
è un gran risultato. Se è vero che è connaturato alle categorie del commercio piangere
sempre risultati scarsi, è assodato che lo strombazzato boom di acquisti e spese da parte
delle folle di visitatori non ci sia stato. E’ ormai chiaro che Expo si è rivelato piuttosto un
competitor con la città, funzionando da attrattore verso il sito espositivo con grandi afflussi
concentrati nei weekend e lunghe code agli accessi, e da detrattore rispetto alle altre
attività economiche. In questa logica economica, la città di Milano ha percepito l’Expo
anzitutto come un competitor. A parte gli alberghi e le forme di alloggio temporanee, che
hanno visto un certo aumento di presenze ed un forte rialzo dei prezzi, il resto della città
non ha quasi sentito l’Expo. I ristoratori sono mesi che lamentano numeri molto inferiori a
quelli previsti, anche in relazione ai lanci pre-expo ed agli investimenti che molti avevano
fatto in previsione dell’evento. La città diffusa non ha visto i turisti perché fuori dalla
vetrina del centro non è stato fatto nulla perché i visitatori vi si recassero. Solo in pochi
luoghi esclusivi gli operatori economici hanno investito. Una scelta di classe. Le
sistemazioni che hanno attratto visitatori sono quelle destinate ai ricchi, alla classe
dirigente, oppure ad una fruizione a tempo determinato. Gli esempi principali sono offerti
da Darsena, Isola, Garibaldi, Stelline.
7- Guardie e ladri
Anche sul piano della illegalità Expo ha fatto da acceleratore di processi, facendo emergere
il peggio del peggio della corruzione, della connivenza tra settori dello stato, manager
incaricati di gestire la cosa pubblica e criminalità organizzata. Soprattutto ha spiegato, più
di quanto fosse già chiaro, che la macchina del Grande Evento, così come si è determinata
storicamente, genera un diffuso agire illecito. Ormai è chiaro che non esiste una Grande
Opera sana e pulita: per definizione sono un precipitato di quella “borghesia mafiosa”,
collocata nella zona grigia tra legale e illegale, che la globalizzazione ha fatto emergere
negli ultimi 25 anni. Le parole di Raffaele Cantone da questo punto di vista sono eloquenti:
non dichiarano la correttezza formale dei meccanismi di Expo, quanto piuttosto suggellano
quel tacito accordo tra autorità giudiziaria e governo, di cui Bruti Liberati è stato il
principale garante. Inchieste bloccate o (temporaneamente?) insabbiate. Non solo,
rivelano anche l’imponente architettura formale costruita ad hoc per l’evento: l’Anac
(Autorità nazionale anti corruzione) e tutti gli accordi trasversali tra istituzioni,
magistratura, imprese e finanza. Una enorma cortina fumogena che ha legittimato guardie
e ladri.
Il meccanismo di emergenzialità pianificata è anche questo.
8- Lavoro tanto, paga nulla. Non si sciopera.
Il lavoro paga lo scotto più alto. Delle 200.000 posizioni lavorative in più non si ha traccia,
mentre l’eredità più pesante è l’aver legittimato pienamente tre pericolosi precedenti: la
contrattualizzazione del volontariato (cosa ben diversa dallo s tage ) come rapporto di
lavoro; la precettazione per motivi di ordine pubblico del diritto di sciopero nelle attività
considerate “strategiche”; la riabilitazione del licenziamento politico e del ruolo della
polizia come valutatore di ultima istanza dell’assunzione o meno. Politicamente parlando,
la Cgil ha definitivamente compiuto la sua transizione ad organizzazione corporativa e
avversaria del precariato: l’aver svolto il suo direttivo nazionale dentro il sito espositivo ad
Expo in corso (al pari del Pd) ha un valore molto più alto del mero aspetto simbolico.
9- Food 2.0
Il tema dell’alimentazione invece è il grande assente dell’evento: nel vuoto tematico ed
espositivo della fiera, i protagonisti sono rimaste le multinazionali dell’a grobusiness e i
paesi promotori del l and grabbing globale che sta uccidendo proprio quella cultura
contadina di cui Expo 2015 doveva essere rappresentante. Il paradosso si vorrebbe risolto
grazie alla presenza legittimante degli esponenti dell’Expo dei popoli, del medio e grande
associazionismo ambientalista e agricolo, di importanti cooperative di produttori (e qui
parliamo anzitutto di S low Food ). Soggetti che hanno sperato di superare la loro
contraddizione con qualche discorso critico e moralista ai potenti del mondo dai loro stessi
palchi e prendendosi i loro stessi applausi.
Anche fuori dal sito espositivo il tema cibo si è presto tradotto più che altro in punti f ood di
lusso e una tendenza al p ornfood. Più che parlare di alimentazione e buone pratiche
contadine, di piccoli produttori, di giustizia ed uguaglianza alimentare, si è scelto una
condivisione virtuale su vasta scala dei prodotti bio e non dell’agroindustria, dell’alta
cucina e della Grande distribuzione organizzata.
A tutti gli effetti, nulla di quanto promesso o celebrato è realmente accaduto nella città che
si voleva capitale mondiale dell’alimentazione, la rivoluzione urbanistica e culturale
promessa da Pisapia, Maroni, Renzi e Sala, il volano economico dell’Esposizioni universale
per il paese. Anzi, possiamo dire senza timore di smentita, che ci troviamo di fronte a tutto
l’opposto.
10- Il post Expo e la città negata
Expo è appena finito ma quello che accadrà è possibile provare a indovinarlo già da tempo.
Di certo dovremo sopportare ancora per mesi, alimentato dal clima della imminente
campagna elettorale per le comunali, la violenza della narrazione trionfalistica sui successi
e i benefici dell’evento. Questo anche per nascondere una realtà che ricorda invece più i
film di Fantozzi o il miglior neorealismo felliniano. Se vogliamo parlare di lasciti ci sono
alcuni punti fermi e chiari da sempre: Expo è stato e sarà un furto di risorse pubbliche e
beni comuni ai danni della collettività; Expo non ha redistribuito ricchezza, al contrario ha
generato limitatissimi ritorni economici, mentre ha prodotto enormi plusvalenze per pochi
soggetti collocati ai vertici; Expo infine è stata la vittoria della logica emergenziale, violenta
e privatistica che domina l’economia, e, più in generale, i rapporti sociali in questa fase di
crisi.
In quanto a Milano, come hanno vissuto la città e i suoi abitanti questi sei mesi? Una città
sacrificata e brandizzata a uso e consumo di chi la doveva attraversare da turista e
visitatore, ma non pensata per rispondere a bisogni e desideri di chi quotidianamente la
vive. Il territorio metropolitano sta evolvendo in modo differenziato. Gli economisti
direbbero “segmentato”, cioè ci sono parti della città per stranieri (Porta Venezia, primo
tratto di via Padova, via Farini, ampie zona nella parte nord della città, via Novara) parti
per studenti poveri, parti per la ex classe media in via di impoverimento, che non fa
manutenzione agli immobili, non cambia casa, non riesce a fare il mutuo, naturalmente
non riesce a metter via soldi a fine mese. Ci sono parti per la residua classe media, ma
sempre meno e soprattutto in zone sempre più esterne (ad es. a sud sotto via Giovanni da
Cermenate o a sud di viale Ortles). E ci sono aree ristrette per soli ricchi. Queste parti della
città comunicano formalmente, ma di fatto sono isolate. Pochissimi riescono ad accedere
ad una zona di maggior pregio, facile è scivolare verso fuori, la periferia. Continua
l’espulsione di cittadini che fuggono dai prezzi degli immobili, scambiando costi minori per
una peggiore qualità di vita, dentro i ritmi del pendolarismo. Ed è proprio questo il punto:
portato ideologico dell’Expo è il globalismo, la fine del territorio inteso come prospettiva
locale limitata; eppure sul territorio, al di là della retorica del rinascimento ambrosiano, le
persone continuano ad abitare, lavorare, curarsi, nutrirsi. Quanto costa sacrificare la vita
materiale per il marketing?
Gli investimenti soft e tutti finalizzati, o quasi, al grande evento della giunta Pisapia, sono
evidenti placebo, più comunicati spesso che sostanziali e non solo sul fronte delle politiche
urbanistiche. La famosa share economy, tanto celebrata dai liberisti nostrani quanto
apprezzata purtroppo anche dal popolo stesso, è il nuovo principio su cui si fondano le
politiche pubbliche. Così, per esempio, la mobilità pubblica sostituita dal b ike e c ar
sharing , laddove servirebbe invece una mobilità pubblica e sostenibile estesa e funzionale
a tutti i livelli e pensata per chi si trova maggiormente in difficoltà economica. Una logica
ragionieristica guida i processi di esternalizzazione dei servizi pubblici, convogliando poi
tutti gli investimenti sulla macchina Expo e di Expoincittà.
11- L’origine di Expo: segui i soldi
Occorre ripartire dagli assetti delle società che hanno gestito e organizzato l’evento, per
comprendere quali siano le criticità e le contraddizioni che attendono lo scenario milanese
(ma non solo) per i prossimi anni. La proprietà delle aree è di Arexpo S.p.A., la società che
ha comperato il milione di metri quadri dove si è svolto l’evento e li ha acquistati da
Cabassi, Fondazione Fiera e Poste Italiane, pagandoli uno sproposito, grazie ad una
speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti e ratificata da Pisapia;
operazione che ha condotto indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo
per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro). La
gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata
deserta e in molti stano pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano
interessare a tutti ma che nessuno vuole. A meno che non intervenga un soggetto “forte”,
sia sotto il profilo politico sia sotto quello finanziario, che garantisca la realizzazione di
nuove opere, nuove infrastrutture e faccia ripartire la giostra. Quello che è certo, ad oggi, è
che Fondazione Fiera Milano si prepara a intascare la quota del 27% in Arexpo cedendo le
proprie azioni al Governo e sarà l’unico soggetto che ne uscirà bene sarà, come al solito,
incasserà le plusvalenze e non dovrà nemmeno preoccuparsi delle bonifiche, delle
dismissioni e di qualsiasi cosa riserverà il dopo-sito. Compresi i maggiori costi che iniziano
a spuntare (come la questione bonifiche), al di là che questi siano effettivi o nuovi
meccanismi per drenare denaro pubblico e alimentare catene più o meno lecite di profitti
privati.
Expo S.p.A. ha realizzato il sito ed ha gestito il processo costruttivo dei padiglioni
“standard”, ha stipulato i contratto con i paesi ospiti, ha gestito il management di tutto lo
svolgimento, sta percependo proventi di vario tipo (pubblicità, merchandising, …) e ha
incassato il denaro proveniente dalla vendita dei biglietti. Ma finito Expo il suo compito si
esaurisce e tutta la responsabilità e gli oneri di smantellamento del sito e riutilizzo dell’area
sono in capo ai soci di Arexpo (Comune di Milano, Regione Lombardia e Governo
appunto) e ai vari Stati per quanto riguarda la rimozione dei padiglioni (sempre che
abbiano i soldi per farlo e non restino abbandonati come in altre edizioni di Expo recenti
anche europee). La demolizione dei padiglioni ha costi elevati, sia dal punto di vista della
lavorazione che sotto il profilo ambientale. Rumore, polvere, lavoro a forte rischio
sfruttamento (la demolizione non è una attività qualificata, la si può fare tranquillamente
con operai poco formati e con scarsi livelli di sicurezza). Molti padiglioni non hanno ancora
pagato le imprese che hanno fatto i lavori, figuriamoci per i lavori di smantellamento.
12- Governance e aree
Sistemare le aree senza sapere cosa farne non conviene a nessuno. E per decidere cosa
farne occorre un grosso intervento di g overnance e di garanzie finanziarie che oggi solo
Cassa Depositi e Prestiti è in grado di fornire ( quindi sempre un salvadanaio pubblico o di
pubblico risparmio). La cabina di regia è una finta colossale, perché è soltanto il paravento
di una serie di soggetti che stanno decidendo su altri tavoli. La conseguenza è che l’area di
Expo rischia di rimanere abbandonata a se stessa per i prossimi mesi e forse per i prossimi
anni. Le voci che circolano riguardano lo smantellamento di alcune delle facoltà
scientifiche in Città Studi e il loro spostamento sull’ex sito espositivo; il Politecnico si
allargherebbe su parte di quanto liberato, spostando zone del polo di Bovisa. Di
conseguenza, le aree lasciate libere dalla Statale in Città Studi verrebbero a questo punto
spartite tra Politecnico e investitori di non meglio specificata natura. Ma tutti resteranno
fermi in attesa che vengano definiti gli accordi tra i poteri forti, che per l’area milanese in
questa fase significano l’intreccio tra Fondazione Fiera, Ferrovie dello Stato (che sta per
trasformare gli ex scali ferroviari in nuove speculazioni edilizie), Aler (che procederà con la
svendita del patrimonio immobiliare pubblico), l’Università Statale e Politecnico (che
tenteranno di diventare l’ennesimo agente del Real Estate).
Uno scenario ad elevato rischio di bolla speculativa, perché a Milano non esiste nessun
bisogno reale, cioè capace di mercato, di nuove edificazioni o di nuovi interventi, che
finiranno per moltiplicare i fallimenti di Santa Giulia o di City Life. Tutto questo mentre è
ormai sancita e definita la santa alleanza a tutti i livelli, anche nel mattone, tra Compagnia
delle Opere e PD, tramite Legacoop.
Abbiamo detto per anni che Expo è un modello di g overnance e di sviluppo (cioè
sottosviluppo). Lo è perché fondato su poche regole, spesso in deroga; perché intervento a
bassissimo impatto tecnologico e con un impianto realizzativo banale (chi è stato all’Expo
ha visto impalcature, cartongesso e teli per coprire le cose che non si dovevano vedere).
Perché ha ridefinito i rapporti tra amministrazioni, politica, privati che investono (pochi,
in verità), gruppi di potere (Banche, CdO, Cabassi, COOP, Assicurazioni). Perché ha
rimesso in gioco con forza l’economia della malavita organizzata, tramite movimenti terra,
bonifiche, smaltimento rifiuti, allestimenti fieristici, lavori a bassa specializzazione,
facchinaggio, guardianirie. Ora ci accorgiamo che Expo non è un modello di governo. Expo
è la governance per definizione. Sala possibile candidato sindaco, che è forte di suo perché
uomo di Renzi ma diventa più forte dopo i sondaggi di Corriere e Repubblica, che non
servono a valutare la reale forza, ma a costruirla mediaticamente. Una specie di circolo
vizioso che nessuno, per il momento, pare abbia la volontà o il potere di spezzare. E che
diventa ancora più stretto con il suo ingresso in Cassa Depositi e Prestiti , ossia la
cassaforte dello Sblocca Italia, ma non solo, come dicevamo, unica possibile garanzia per i
destini futuri del sito espositivo.
13- Il vero FuoriExpo
Questi scenari non sono i soli, però. Occorre ricordare che Expo non è solo il sito
espositivo. Che il dossier di candidatura indicava alcuni interventi infrastrutturali
strategici per la riuscita dell’evento, poi realizzati, per una spesa complessiva di circa 10
miliardi di euro. Parliamo di Teem, BreBeMi, Pedemontana più altri interventi su assi
viabilistici primari e secondari. Opere che non solo hanno devastato il Parco Agricolo Sud,
Il Parco dell’Adda e milioni di mq di aree agricole, ma che stanno continuando a
dissanguare le casse degli Enti Locali, ultimo il finanziamento di Regione Lombardia per
coprire i deficit di bilancio della BreBeMi. Che erano inutili lo sapevamo, lo abbiamo
denunciato per anni e ora gravano come macigni insostenibili su territori e casse
pubbliche. Ma siccome la macchina deve girare, finito Expo ed esportate logiche e modello
su altri tavoli, ecco arrivare nuovi progetti infrastrutturali, che trovano applicazione
emergenziale nella legge Sblocca Italia, e che incombono sull’area metropolitana ed in
particolare sul Parco Sud (trivelle, discariche e stoccaggi di idrocarburi) come se non
bastasse il continuo proliferare di nuove attività edilizie, dentro il vorticoso stupido gioco e
ricatto subito dai Comuni, che usano gli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa
corrente. Secondo i piani del governo Renzi, la Lombardia e la fascia della bassa padana
agricola, dovrebbero diventare hub logistico della distribuzione energetica e dello
stoccaggio di gas di rilevanza europea. La devastazione del territorio e il consumo di suolo
attorno alla città che ha avuto la sua accelerazione con Expo, sembra così non avere fine. A
questi bisogna poi aggiungere decine di opere, gronde, sottopassi, parcheggi, alberghi, poli
commerciali realizzate (o almeno avviate) nei mesi scorsi. Questi progetti confermano la
gigantesca menzogna rispetto al tema dell’Esposizione: cibo, filiera corta, alimenti a km
zero, agricoltura sostenibile e periurbana etc.; non solo: dimostrano l’inutilità della Carta
di Milano, spacciata come High Agreement quando in realtà nessuno sa indicare
esattamente quali impegni concreti vi siano contenuti nè tantomeno chi li debba
mentenere. Ora che succede? Cosa ne sarà delle opere non finite e ancora più inutili visto
che lo scempio è iniziato ma si è esaurita la spinta propulsiva dell’Expo?
14- La ricomposizione dei poteri
Come cambia la geografia del potere nella città metropolitana, ora che si sta verificando un
cambio al vertice, via Zunino, Ligresti, Pirelli per lasciare il campo ai nuovi signori del
mattone e della finanza dalla Qatar Founfation a UnipolSai? Come si sta muovendo la
finanza stracciona nazionale e quella internazionale, da Palenzona agli arabi che si sono
comperati l’area Garibaldi, passando ovviamente per Intesa e Unicredit?
Sono temi che meritano più di un’attenzione e che saranno fondamentali per le partite
future che interessano la città e i suoi abitanti dopo la sbornia Expo. E che ci portano a dire
che ora più che mai la questione della riappropriazione collettiva, del Diritto alla Città, dal
basso, orizzontalmente, sia la sola risposta a una dinamica privatistica e predatrice della
città e del concetto di spazio pubblico. E non sarà l’ennesimo percorso fittizio di
“progettazione partecipata” a soddisfare quella che invece è un’esigenza di democrazia
radicale.
15- La partita che si sta giocando
La sfida che ci si presentava davanti riguardava dunque sia il livello locale che lo scenario
nazionale. Gli avvenimenti più recenti, con le dichiarazioni celebrative delle alte cariche
dello Stato sul successo del modello-Milano e la nomina del prefetto Tronca a commissario
niente poco di meno che della Capitale, rivelano il senso più ampio della partita che si è
giocata con Expo e di quella che si sta aprendo in queste settimane: la politica al tempo
della Grande crisi diventa sempre più barocca, dialogo e scontro tutto interno ai poteri
forti e ai palazzi; il governo del territorio è sempre meno soggetto al controllo democratico
ed il commissariamento è divenuto ormai la soluzione acclamata di fronte al declino, alla
corruzione, alla crisi. Tutto questo avviene con consenso, è importante dirselo e
riconoscerlo: l’operazione Expo e la propaganda del “rinascimento milanese” sono serviti
proprio a rendere legittimo anzitutto di fronte all’opinione pubblica il suo stesso esonero
da ogni possibilità di controllo e critica. Magistrati, manager di successo, prefetti e questori
sono stati i protagonisti di quello che non esitiamo a chiamare autoritarismo morbido (ma
che potrebbe presto rivelarsi in tutta la sua asprezza). Il governo Renzi, già di per sè
autonominatosi in seguito ad una crisi istituzionale tutta interna al Partito democratico,
sta realizzando il più alto numero di commissariamenti e leggi speciali degli ultimi
vent’anni. Ma Milano è un precedente pericoloso anche per un altro motivo:
l’annichilimento di ogni protesta, la chiusura dello spazio pubblico di dibattito, la
pacificazione forzata. Il movimento milanese non ha colto fino in fondo la posta in gioco,
sia sulla privatizzazione della città di Milano e del suo territorio (che ora entra in una
seconda fase), sia sul progetto politico più ampio (lo scontro adesso si è spostato a Roma).
Ad un certo punto, la denuncia da sola non basta. Bisogna quindi ripartire da
un’autocritica severa ma necessaria: gli errori commessi (che non si concentrano
unicamente nella giornata del Primo maggio: sarebbe stupido attribuire una crisi politica
alle conseguenze di una sola data) si pagheranno e sono evidenti nella difficoltà, in questa
fase, di promuovere un movimento realmente d’opposizione sociale. Milano è pacificata
dal conformismo e dalla disgregazione dei rapporti: è da questi dati che dovremo ripartire
per bloccare e invertire l’attuale trasformazione in senso funzionale del territorio, la sua
svendita, la sua chiusura anzitutto agli abitanti. Che cada allora ogni maschera e si rompa
l’accecante cappa grigia, smettano di brillare i grattacieli e lo spettacolo degli eventi,
riconosciamo i nostri tempi e i nostri bisogni: la vita e la città devono essere qualcos’altro.
Off Topic , novembre 2015
Tags: beni comuni, cassa depositi e prestiti, cemento, cibo, crisi, debito, expo 2015, grandi opere, housing sociale, infrastrutture, mayday, metropoli, milano, nocanal, noexpo, precarietà, privatizzazioni, repressione, sgomberi, speculazione, territorio
Trackback dal tuo sito.